La conseguenza di un evento è l’atto finale e pure l’inizio di una moltitudine di altri eventi.
Questo è il percorso infinito che muove l’esistenza; anche ciò che ci appare qualcosa di già visto è, in realtà, solo un nuovo momento, espresso in un nuovo tempo e in un nuovo punto nello spazio.
Tutto gira, tutto scorre, tutto muta nell’apparente ciclicità, in quella bolla di monotonia che ci fa spostare come robot, giorno dopo giorno, dopo un buffetto sul viso al cospetto di quel fugace sguardo rivolto a noi stessi allo specchio prima di affrontare una nuova copia dei giorni passati.
Certi eventi sono statici, altri sono catastrofici, ma ogni giorno qualcosa sparisce comunque per dare spazio a una nuova configurazione.
In questo mare navigo cercando ancora la mia meta, sgomitando fra la folla inferocita, tenendo stretto a me le cose e le persone a cui tengo, valutando il male minore che mi protegga e mi assicura da un male più grande. Ascolto pareri, mi lascio influenzare, poi mollo la presa e cambio bandiera, e poi ancora ragiono, mi pento, ma ancora risalgo la china e comprendo. Mi fermo su un orizzonte e osservo miliardi di anime pugnalarsi alle spalle convinte che il proprio malessere dipenda dagli altri. Non c’è più spazio perché abbiamo creato confini interiori, non c’è flusso perché abbiamo perso stupore e amore, non c’è futuro perché si è sgretolata la necessità di sognare e di progettare, non c’è empatia perché abbiamo dato spazio ad una ripugnante ignoranza travesitata da opinioni.
Io sono un katechon, ma trattengo dei disagi, delle paure, dei sorrisi, dei ricordi, della rabbia, e miliardi di altre emozioni che non hanno mai potuto esprimersi o trovare ragione, riparo.
Il mio anticristo è il senso di inadeguatezza, la eco sbiadita di un luogo che non ho mai raggiunto e su cui vorrei smettere di sopravvivere per iniziare a vivere.
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