Lo so, sto scrivendo tanto, forse troppo. Vado a fondo nella mia malinconia come qualsiasi essere umano tenti di dimenticare qualcosa annegando il cervello ed il cuore nel vino. Ho un’infinità di cose da dire, le tengo dentro di me da una vita e ora le ho liberate dalle catene che mi ero imposto solo per non apparire fragile, per non sembrare stupido agli occhi degli altri. Gli altri, come se me ne fregasse qualcosa del giudizio altrui; no, scrivo perché le parole sono il serto che incornicia il confine che introduce la nostra umanità, da un lato al più cupo del mondo infernale e dall’altro alla più alta concezione di luce e bellezza. Desidero essere ascoltato tanto quanto desidero essere abbracciato e amato. Ho delle pietre aguzze che sporgono dal mio cuore; mi brucia il sangue mentre passano lì vicino. Devo aprirmi il petto per effettuare un delicatissimo intervento a cuore aperto per estrarle e poi polverizzarle. Ma chi può fare quest’operazione se non me stesso? Chi altri saprebbe maneggiare il mio cuore, chi saprebbe rispettarlo, chi saprebbe capirlo?
Faccio questa introduzione solo perché vorrei capire, papà, perché mi hai fatto male? Perché hai scelto di non amarmi più, perché ti sei allontanato, perché hai dato anche a me il peso di quelle scelte sbagliate che avevate fatto tu e la mamma? Per quale maledetta ragione mi hai piantato nel cuore quelle pietre scure? Che colpa può avere un bambino? Che colpe ho avuto per non meritarmi il tuo affetto? Perché non hai mai giocato con me? Perché non mi hai mai preso in braccio e fatto volare per il mondo sulle tue spalle?
E poi, tanti anni dopo, in quel giorno in cui mi dicesti in faccia che non t’importava nulla dei sentimenti, quel giorno in cui venni da te nel tuo studio medico e battesti i pugni sul tavolo solo perché desideravo passare del tempo con te, tu lo sai cosa aggiungesti a quelle pietre? Iniettasti un acido corrosivo che spazzò via ogni mia debole speranza. Che paradosso, papà, che assurdo paradosso che io debba operare me stesso con quella praticità che solo un chirurgo come te avrebbe potuto fare agevolmente. Volevo che mi conoscessi, che uscissimo assieme, che avessimo un’occasione. Avevo delle lacrime appese ai bordi dei miei occhi verdi e quel giorno, quando tornai a casa sconfitto, uscirono tutte accompagnate da mille parole “mute”, parole fatte solo di spazi; quegli spazi che, messi uno di fianco all’altro, erano la misura esatta della nostra distanza. Fiumi di singhiozzi troncati. Non avevo mai pianto così. Se quelle goccioline salate avessero raggiunto il mare avrebbero generato uno tsunami e cancellato dalla faccia della Terra ogni luogo dove tu posasti i tuoi piedi; perché, papà, io in quell’istante ripudiai di essere tuo figlio, ripudiai l’idea di ricordare i tuoi passi mai condivisi con me. Ti odiai, ti odiai talmente tanto da scegliere di non cercarti mai più.
Poi sei morto, pochi mesi dopo, e lo seppi con una telefonata mentre ero a lavoro. Sai che rimasi paralizzato? Un soffio al cuore fece rinascere dalle ceneri la fenice di un amore che, in fondo, avevo solo seppellito vivo. Un amore su cui però avevo pisciato, che avevo calpestato, che avevo coperto di cemento armato. Ma, caro papà, l’amore, per me, è sempre stato qualcosa di più potente di qualsiasi cosa e, così, permisi ad un piccolo nodo del ricordo di te di creare una breccia per respirare. Ancora una volta mi avvicinai a te e ti tesi la mia manina.
Mi ritrovai di fronte alla tua bara già chiusa, la osservavo dall’uscio, mi ritrovai catapultato a casa tua, una casa che non avevo mai visto prima. Ero stordito, ovattato, silenzioso. Attorno a me vedevo gente passare avanti e indietro, li sentivo parlare, li sentivo dire cose che non ricordo perché le voci dentro di me erano molto più forti. Qualcuno mi abbracciò e disse “parole” che mi attraversarono come la luce attraversa la nebbia senza lasciare traccia di sé, del suo passaggio.
Stavo lì dondolando fra le mie emozioni contraddittorie e non sapevo come agire. Quanta confusione attorno alla tua bara, quante anime prive di anima che cercavano di apparire più contrite delle altre per splendere maggiormente e vincere la fascia di “Miss o Mr. emotività”. Un teatrino schifoso! Papà, l’indomani non riuscii a seguirti fino alla sepoltura, mi rifiutai. Giorni dopo mi ritrovai dentro ad una chiesa. Io dentro ad una chiesa, ti rendi conto? Io che non credo, io che poi sono diventato pure buddista. Mi sedetti lì dentro ed ero da solo; osservai le colonne, gli affreschi, la croce. L’unica cosa che mi piacque era il profumo dell’incenso. Non feci nessuna preghiera ma ti rivolsi un pensiero da quel luogo al quale so tu eri legato e dal quale sei transitato.
Ti ho perdonato, ti ho perdonato di tutto e ti dissi che ti volevo bene nonostante tutto. Sai cosa sono quelle pietre nel mio cuore che non riesco a togliere facilmente? Sono gli spigoli di una domanda che non ha mai avuto risposta: “perché, papà, sei arrivato a lasciare questa vita senza il desiderio di avermi nella tua vita?”. Oggi provo compassione per te, provo tanta tristezza per un uomo che è morto da solo in casa, un uomo che si era circondato di oggetti, di videogiochi, di sigarette e del suo lavoro. Quelle furono le cose che trovai in casa tua, quelle furono le cose che mi rimasero impresse e che mi spezzarono l’anima in due. Se solo tu mi avessi accettato e voluto con te magari saresti morto in un abbraccio, con una voce in più (la mia) registrata nella segreteria, con in casa anche una foto di noi due assieme sul comodino, con un piatto ed un bicchiere in più, con un letto in più, con dei ricordi in più.
Avrei voluto fossi orgoglioso di me, che mi aiutassi a capire alcune cose di questa vita, ad affrontare meglio certe scelte, a crescere con qualche legame padre-figlio. Ho dovuto affrontare me stesso sempre da solo perché, papà, la mamma ha fatto del suo meglio ma non poteva darmi ciò che avresti dovuto darmi tu.
Sei stato un grande egoista perché te ne sei andato ancora una volta voltandomi le spalle, senza dirmi niente, senza cercarmi.
Ho giurato a me stesso che non avrei mai fatto i tuoi sbagli e, caro papà, ci sto riuscendo, sai? Sono un uomo migliore e, devo dirtelo, devo ciò anche a te; senza il tuo rifiuto non avrei capito certe cose della vita. Mi hai insegnato esattamente tutto ciò che tu negavi anche a te stesso, l’amore!
Spero di essere per mia figlia il padre che avrei voluto tu fossi con me e spero tu potrai vedere tutto ciò da qualsiasi parte dell’universo ti trovi adesso ed in qualsiasi cosa la tua energia si sia trasformata. Spero inoltre di essere sempre l’uomo che la mia compagna desidera e spero di poterle dare tutto quell’amore che tu hai mancato anche verso la mamma, rendendola la donna ferita e fragile che è oggi. Papà, ricordati che a me non è mai importato nulla delle cose materiali, io spero solo che la mia morte, un giorno, avverrà con un sorriso fra i rami fioriti di due braccia piene d’amore.
Le parole sono finite, gli spazi si sono adagiati fra di esse e la punteggiatura si è accomodata sulle frasi fin qui costruite. Per stasera ho finito di piangere, per stasera ho finito di tirare via l’acqua sporca dal mio pozzo, per stasera le lettere dell’alfabeto si potranno addormentare al fuoco lento di un’emozione a cui ho finalmente dato un nome.
Forse stare in equilibrio vuol dire aggrapparsi con due dita alle proprie guance e tirarle su per stampare un sorriso fino all’ultimo fotogramma nel rullino della nostra vita.
Addio papà.
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