Scrollo, vado sempre più giù fra migliaia di post e poi scrollo ancora fra i commenti di quelli che attirano la mia mente e/o il mio cuore. Pezzi di parole stampate che raccontano un minuscolo istante di un altro essere umano: un patchwork, formato dalle emozioni più disparate, che si posa sulle spalle curve della socialità umana per celarne i sensi ed amplificarne bugie, aspettative e alienazione.
La maschera di Pirandello diventa allegorica, si fa Carnevale, si trasforma in un carro e lancia coriandoli su ogni molteplice identità dell’io.
Io però scrollo, e non vedo il fondo; continuo a scrollare, c’è luce ma è tutto paradossalmente buio: manca il tatto, manca l’incrocio di due sguardi o la vista dell’orizzonte, manca il sapore, manca la voce, manca il profumo della realtà.
Sto scrollando e un po’ interagisco, mando sorrisi, faccine coi cuori o con le lacrime o con il broncio, esprimo pensieri, commento estasiato o turbato, lo faccio consapevolmente mentre tengo al guinzaglio un angolo di dignità, un angolo di verità e un angolo di amore: il mio personalissimo triangolo delle Bermuda dove ho visto sparire le navi che solcavano la mia libertà.
Scrollo ma ad un certo punto mi annoio, non mi soffermo più e scrollo troppo velocemente, lo faccio per inerzia; dopo un po’ arriva una nuova notifica: qualcuno ha commentato o ha pubblicato qualcosa di nuovo e così voglio tornare in cima per ricominciare a scrollare.
Sì, ma in realtà voglio tornare a vivere, lontano da questo schema, al di là di questa bolla senz’aria; qualcuno mi tenda la mano, qualcuno mi tiri su e mi aiuti a sfilare via le parole incastrate fra le mie dita affinché io possa smettere di scrollare, perché devo scrivere col sangue un nuovo copione sulle rocce senza nome su cui si inscena la commedia di quest’assurda umanità.
Un giorno smetterò di scrollare per ritornare a casa a sfogliare la luna, le stelle, il mare e i miei stessi occhi incantati a osservare un respiro che diventa musica, in un ritmo che si ripeterà fino alla morte.
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